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redigio.it/dati2412/QGLM1127-paesi-bitto.mp3 - Il Bitto - La culla del bitto - il bitto in fiera - le antiche origini - la lavorazione -

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www.radyshow.it e la storia continua. Il bitto. La culla del bitto. Il bitto. Il riconoscimento della DOP è nel suo caso particolarmente significativo poiché esalicisce lo stretto legame del formaggio con il territorio, stagionalità, modalità tradizionali di casinificazione e manualità dei casari, certificando con le sue caratteristiche organoletiche siano la conseguenza di tutti quei fattori oltre della qualità delle erbe montane di cui si alimentano le vacche che danno il latte da cui si ricava. La zona di produzione, ossia di provenienza del latte, casinificazione e stagionatura, è costituita dall'intera provincia di Sondrio, con i territori limitrofi dei comuni di Averara, Carona, Cusio, Focolo, Nezzoldo, Piazzatore, Santa Brigida e Valleve, situate nell'alta Val Vrembana, in provincia di Bergamo. Il formaggio prende il nome dal torrente bitto, tributario dell'Adda presso Morbegno, che bagna la Val Gerola, detta per esattezza del Bitto di Gerola, che con la contigua Valle dell'Albaredo, nel versante settentrionale delle Alpi Orobiche, costituisce la culla originaria del pregevole formaggio. Le antiche origini. I fautori delle radici celtiche, delle genti lombarde valtellinesi in particolare, sostengono che l'allevamento dei bovini da latte in queste valli abbia avuto impulso ad opera del clan dei Celti rifugiatevi dalla pianura per sfuggire al dominio romano. Una versione che non tiene probabilmente conto dei reciproci influssi tra popoli diversi in luoghi eminentemente di transito, al pari delle sbrigative etimologie che ricollegano il nome del Bitto dal celtico bitu, che significherebbe perenne. In quanto idoneo a lunghe stagionature, è al germanico bet, ossia letto, alludendo appunto al letto del torrente Bitto e della sua valle. Il mistero, come si suol dire, è fitto. I primi documenti che attestano la produzione del Bitto risalgono in effetti al XVI secolo, anche se è più che verosimile che l'origine sia ancora più antica. Dalle ancestrali valli europiche la lavorazione si è stesa alle terre limitrofe, mantenendo modalità e cadenze tradizionali con aspetti davvero suggestivi. Basti dire che in alcuni alpeggi il formaggio è fatto ancora nei calets, tipici recinti con muretti di pietra secco, alti un metro o poco più, coperti all'occorrenza da teli e distribuiti nelle aree adibite a pascolo, affinché i casari possono sistemarvi le loro attrezzature e procedere alla lavorazione del latte appena munto. La lavorazione Il Bitto d'Op è dunque un formaggio grasso a pasta semicotta con acidità naturale di fermentazione, ricavato da latte vaccino intero, eventualmente integrato dal latte caprino in percentuale dal 5 al 15% del totale, facendo secondo il tipico procedimento uso-monte. Il latte, rimescolato lentamente con la ridella, è ricavato e riscaldato nelle caldaie, le più antiche a forma di campana rovesciate e si chiamano coldere, sino alla temperatura di 37-38°C. Aggiunto al caglio di vitello, il coagulo si produce in mezz'ora circa e rotta la cagliata a dimensioni di chicco di riso con la lira detta anche chitarra, si riporta la massa a 49-50°C per un'altra mezz'ora, dopodiché la si lascia riposare fuori dal fuoco affinché si depositi sul fondo della coldera ed estrattela con l'ausilio dello spersore la si distribuisce in fascelle di legno di larice di diametro compreso tra i 30 e i 50 cm, pressandola per una decina di ore affinché dismetta del tutto il siro. Trascorse in un paio di giorni, si insalano le forme a secco con sale grosso dato per due settimane circa su tutte le facce, lasciandole brevemente maturare allineata su delle assi delle piccole casere montane per trasferirle infine in fondovalle. Di ritorno all'appeggio, a stagionare in cantine, a iglotermia controllata. Durante la stagionatura, che da un minimo di 70 giorni può portarsi sino a tre anni e oltre, le forme, con peso finale di 8-25 kg, sono periodicamente raschiate con la raspetta per eliminare le muffe e massaggiate con salamoia mista a olio onde limitare l'evaporazione dell'umidità contenuta nella pasta. Mantenendola così tenera e tonica. Il bitto, a metà stagionatura, ha crosta liscia, sottile, color paglierino, la pasta compatta, fra il bianco e il giallino con occhiatura fine a occhio di pernice, ha sapore delicato, più piccante e aromatico in presenza di latte caprino. E col passare del tempo, la crosta si fa più spessa e scura. La pasta più gialla, soda, friabile e intensa al palato, con eventuale retro gusto gradevolmente amarognolo. L'occhiatura geme un umore denso assai saporito. Un tempo, sino a primo o dopo guerra, si usava aggiungere al latte un pizzico di zafferano per dare al formaggio un bel color paglierino che lo faceva parere più maturo. Specie verso la fine del periodo dell'arpeggio quando nei prati cominciavano a scarseggiare i fiori che davano aroma e colore alla pasta.

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