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Che cosa ricordano, gli altri, di noi?
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The narrator reflects on the question of what others remember about us and wonders if their perception of us is the same as our own. They emphasize the importance of understanding different perspectives and accepting criticism to improve ourselves. The narrator then recalls a recent experience reliving childhood memories, particularly their elementary school days. They remember their kind and young teacher, who wrote a heartfelt letter about her doubts and insecurities as a young educator. The letter also mentions the inclusion of a wheelchair-bound classmate and how the teacher treated everyone equally and uniquely. The narrator expresses gratitude for the teacher's teachings and reflects on the contrast between her initial fears and the happy memories they have. They conclude by mentioning the podcast's name, "Perché," but consider changing it. Ascoltando un po' distrattamente un programma alla radio durante il lavoro, vengo lentamente attratto dalle parole di un giovane scrittore. Nel suo ultimo romanzo c'è una domanda di fondo, ossia, che cosa ricordano gli altri di noi? Mi è venuto allora spontaneo riflettere e chiedermi se l'immagine che abbiamo di noi stessi, che ho di me stesso, è la stessa percepita dagli altri. In altre parole, il film della nostra vita è uguale a quello che le persone a noi vicine nei vari momenti hanno visto? Sappiamo che ovviamente non è mai così, e il gioco consiste nel conoscere e capire gli altri punti di vista, accettando le critiche per farne tesoro e cercando di migliorare proprio in quei punti di criticità. O magari scoprire che in fondo non era poi così brutto e patetico quel periodo della nostra vita, se visto da un'altra prospettiva. Questo episodio si ricollega, e quasi sembra essere stato detto apposta, ad un altro momento vissuto un paio di giorni prima, quando ho avuto modo di rivivere momenti della mia infanzia con gli occhi e l'esperienza di oggi. L'antefatto è questo. Un amico che conosco dai tempi dell'asilo mi ha informato che la nostra scuola elementare avrebbe festeggiato di lì a poco i sessanta anni dalla sua fondazione. È una scuola gestita da suore, rimasta sostanzialmente identica. Ho ricordi indelebili della struttura e delle varie aule, le stanze del refettorio e della palestra, il piccolo parco antistante, il piazzale dove si giocavano quelle epiche partite di pallone durante la ricreazione, e le zone vietate come la casa generalizia, dove c'erano gli uffici e le stanze private delle religiose. La nostra maestra era una giovane suora dallo sguardo dolce e dal sorriso appena accennato. Oggi lo definirei simile a quello della gioconda. Aveva pochi anni più dei suoi alunni, anche se ovviamente per noi bambini di sei anni era già abbastanza vecchia, ma non così vecchia come le altre suore. Dal video e dalle foto che il mio amico mi aveva inviato nei giorni a seguire, c'era una lettera che la nostra cara maestra aveva inviato, non potendo anche lei essere presente fisicamente quel giorno. È stata una lettera molto sincera, e per molti versi commovente, nella quale lei confida di essersi trovata ad avere mille dubbi e incertezze sulla sua funzione di giovane educatrice alla prima esperienza. Consapevole e forse anche un po' spaventata dal ruolo così importante e pieno di responsabilità che avrebbe ricoperto. Ma con l'aiuto delle sue consorelle e forte della sua fede, intraprende con entusiasmo e serenità il percorso che la porta a concludere i nostri cinque anni di elementari, scoprendosi, come lei si definisce, una di noi, la bambina aggiunta cresciuta insieme ai suoi alunni. Nella sua lettera ricorda con particolare affetto anche il momento più delicato, ma ricco di emozioni, crescita e gioia, l'inserimento nella nostra classe del terzo anno di un bambino costretto in carrozzina da una malattia degenerativa. Lo ha fatto nel modo più semplice e naturale possibile, considerando lui e tutti gli altri uguali, ma anche unici e speciali. Marcello è sempre stato così, uguale a noi, ma anche unico e speciale. Io ho avuto il privilegio di essere stato il suo compagno di banco, nonché il suo autista di fiducia, a volte maltrattato nei suoi momenti bui, ma anche il primo beneficiario delle sue risate che sottintennevano una sorta di ringraziamento quando correvamo insieme, lui seduto e io dietro a spingere quella carrozzina. Questa splendida esperienza, oltre agli insegnamenti e la bravura di questa giovane suora, li porto sempre con me, e scoprire oggi quanto timore e giustificata insicurezza quella ragazza, poco più che ventenne, aveva all'inizio della sua avventura, contrasta con gli occhi di quel bambino che la vedeva sempre serena e sorridente, sedera e al tempo stesso accondiscendente con tutti noi. E questo film, da qualsiasi punto di vista lo si voglia vedere, rimarrà per me una pagina preziosa da conservare nel cassetto dei ricordi più belli. Grazie di tutto, sora Adriana. Sono Evaristo Tisci, e questo è il mio podcast, che si chiama Perché. Ma forse lo cambio.