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file montato 6  con musica

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Laura

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Andreuccio da Perugia. Narrata da Fiammetta, la novella di Andreuccio ci riporta a una Napoli tutta popolare, quella dei bassi fondi, in cui un giovane sprovveduto mercante di cavalli rischia persino la vita prima di riuscire a cavarsi di impaccio. Il testo che proponiamo è in italiano moderno, nella riscrittura di Pierre Chiard. Un giovane di Perugia di nome Andreuccio, senza ali di cavalli, avendo sentito dire che a Napoli si potevano comprare animali di buona razza, decise di andarne ad acquistare qualcuno da rivendere nella sua città. In quel tempo erano i primi anni del 1300, regnando in Napoli Carlo II d'Angiot, detto lo Zoppo. La città era non solo una capitale, ma anche un grande emporio al quale conveniva gente da ogni parte. Differivano i traffici ed anche certe leghe di malviventi che davano luogo a ruberie, omicidi, risse e tumulti. Mai del tutto sedati e sempre pronti a riesplodere come le eruzioni del Vesuvio. Andreuccio, che non si era mai mosso da Perugia, benché il poco pratico del mondo, si mise in viaggio e giunto a Napoli prese alloggio in un buon albergo, credendosi arrivato nel più tranquillo luogo del mondo. La mattina dopo andò al mercato, dove trattò diversi cavalli, ma senza acquistare nessuno. Per non far pensare ai venditori che gli mancasse il denaro, mostrava spesso qua e là, anche quando non ve n'era bisogno, la sua borsa piena di fiorini d'oro. Una bellissima giovane siciliana, che si aggirava per il mercato, ebbe modo di dare un'occhiata a quella borsa e di vedere quanto era ben fornita. Incuriosita si fermò a guardare i maneggi del giovane, che si avvidi di lei, ma venne subito distratta da una vecchia, anch'essa in giro per mercato, che lo avvicinò con l'aria da riconoscere, in lui una persona nota. La vecchia, infatti, dopo averlo fissato negli occhi, lo afferrò per le braccia dicendogli «No, ma tu sei Andrea Uccio!» Non si era sbagliata, perché Andrea Uccio, a sua volta, la riconobbe e la abbracciò. Era stata, molti anni avanti, una sua nutrice. Quando la vecchia se ne andò, la giovane siciliana la raggiunse e le domandò chi mai avesse ritrovato quella mattina. «Ho fatto una baglia a quel giovanotto», spiegò la vecchia. «Quando... ma lui viveva a Palermo con suo padre e sua madre. L'aveva trovato, poi, cresciuto a Perugia. Deve andare a servizio alcuni anni o solo». La giovane volle sapere ogni particolare del passato di Andrea Uccio e della sua famiglia. La donna la contentò volentieri, poi se ne andò per i fatti suoi. Arrivata a casa, la bella siciliana mandò una sua cameriera all'albergo dove alloggiava il giovane, con l'incarico di invitarlo a casa. «La mia patrona», disse la cameriera ad Andrea Uccio, «ha qualche cosa di importante da farvi sapere». Ricordando le belle fattezze della ragazza, Andrea Uccio vi andò subito, seguendo la cameriera fino al malfamato quartiere del Pertugio, nelle vicinanze del porto. La siciliana, che era una donna di malaffare, vedendola arrivare, gli corse incontro a braccia aperte, lo strinse al seno e lo guidò dentro alla sua casa, che era molto ricca, piena di tappetti e di tendaggi. Andrea Uccio, che si credeva un gran bel giovane, lusingato da una simile accoglienza, era convinto di aver fatto colpo sulla ragazza. «Caro Andrea Uccio», gli andava dicendo, «che fortuna averti incontrato». «Qui ho poi conosciuto il mio nome», le chiese Andrea Uccio. «Stamattina, al mercato, il caso volle che ti fessi vicina, mentre la mia vecchia cameriera, che ora è a servizio presso altri, ti parlava di quando eri fanciulla a Palermo. Se intendo lasciare il tuo nome, rimasini senza parole. Andrea Uccio è il nome di un mio fratello, che non ho mai conosciuto, perché mi sono stata separata quando avevo un anno o due. Aspettai che la vecchia se ne andasse, non osando avvicinarmi a te, ma la raggiunsi poco dopo, e da lei senti con certezza quanto avevo intuito. Andrea Uccio, sei tu mio fratello!» Così dicendo, gli gettò la ragazza al collo un'altra volta. «Come conoscevo questo?», domandò il giovane. «Pietro, mio padre è tuo?» gli spiegò. «Mi morò lungamente a Palermo, come saprai. Là conoscevo quella che fu nostra madre, ed ebbe noi due come figlioli. Nostra madre morì, dandomi la luce. Pietro se ne andò un anno dopo a Perugia, portandoti con sé, e lasciandomi nelle mani della nonna materna. Tu avevi allora tre anni. Morto presto anche nostro padre, come ti è noto, noi siamo cresciuti lontani, sconosciuti l'uno all'altra. Quando avevi vent'anni, andai sposa a un ricco signore palermitano, gran favorito del re Carlo. Con mio marito sono venuta a Napoli, dove sono conosciuta come madama Fior da Liso. Ora mio marito è in viaggio, ma quando tornerà, sarà felice di sapere che ho ritrovato il fratello del quale gli ho parlato tante volte». Abbalendosi di quanto aveva saputo dalla vecchia, gli domandò poi dei suoi parenti con tanta precisione di particolari, che Andreuccio fu certo di aver trovato una sorella. Fior da Liso, finiti convenevoli, gli fece servire dei rinfreschi e, sempre bezzeggiandolo e spesso abbracciandolo e baciandolo, lo convinse a restare con lei per la cena. Serviti dalla cameriera che era andata a invitare Andreuccio, i due siete la tavola fino a notte fatta, conversando e mangiando. «A Napoli», gli disse a una certa ora Fior da Liso, «è pericoloso circolare di notte, perciò ti ho fatto preparare una camera, dove tu puoi dormire tranquillamente come in casa tua». Venuta l'ora di correggersi, Andreuccio entrò nella stanza che gli era stata destinata, accompagnato da un servitorello che gli mostrò ogni cosa e soprattutto la porticina del cesso. Andato via ragazzi e prima di spogliarsi, Andreuccio entrò nel camerino, ma appena dentro il pavimento, che funzionava come trabocchetto, si ribaltò e il giovane cadde in basso, finendosi al fondo di un chiassetto, dove stagnava più di un metro di sterco, che gli smortò la caduta, ma lunga tramò da capo a piedi. Dibattendosi in quella sporcizia, il poveretto cominciò a gridare, ma nessuno lo ascoltava. La sorella, intanto entrata nella camera, si impossessava della sua borsa quei 500 fiorini d'oro. Vedendo che nessuno correva in suo soccorso, Andreuccio provò di sarsi su di un muro che chiudeva il chiassetto verso strada. Ci riuscì, e giunto in cima, si lasciò cadere all'esterno. Insoddisfatto come era, andò alla porta di madama Fiordaliso, e si diede a chiamare a gran voce la sorella. Ma vedendo che nessuno compariva alle finestre, afferrato un sasso, cominciò a percuotere i battenti e a scuoterli vivorosamente, finché si aprì silenziosamente una finestra del pian terreno, la quale affarga un gigante barbuto, che con voce cavernosa gli ingiunse di andarsene immediatamente, se non voleva essere ucciso a bastonate. Spaventato dalla faccia e dalla voce del nergumeno, Andreuccio lasciò cadere in terra il sasso e volse la schiena a quella maledetta casa. Non avendo il coraggio di presentarsi in albergo insozzato e puzzolente come si trovava, si diresse verso il mare, nel quale contava di immergersi e di lavarsi. Svoltato un angolo, vede due uomini che venivano verso di lui con una lanterna in mano. Temendo che fossero delle guardie, si cacciò dentro un cortiletto e si accobacciò in un angolo. I due, senza averlo visto, vi entravano anche loro e, posate la lanterna in terra, si misero ad esaminare certi ferramenti che portavano in collo. Ma uno di loro alzò il capo e disse Cos'è questa putta? L'altro prese di terra la lanterna e, girandola intorno, videra come il tirato su se stesso il povero Andreuccio. Gli domandò cosa facesse in quel luogo e come mai si trovasse così coperto di lordura. Quando Andreuccio aveva raccontato quello che gli era accaduto, i due, parlando tra di loro, conclusero che il disgraziato doveva essere capitato nella casa del brigante Scarafone. Buon uomo, disse il crimine. Ringrazia Dio che ti è andato ancora bene, perché sei uscito vivo, anche passando per lo sterco, da quella casa. È un vero miracolo che non ti abbiano ammazzato. Stai zitto e non dire a nessuno quello che ti è capitato, perché se parli fanno sempre il tempo ad accopparti. Al tuo denaro non ci pensare più e vieni con noi, che andiamo a fare un grosso polpo. Se ci eviterai avrai la tua parte. Andreuccio, sperando di rifarsi del danno subito, non domandò altro e gli seguì, ma i due vollero che si ripulisse un poco, non potendo gli stare vicino per il gran fettore che mandava. Andarono per lavarlo alla meglio, a un pozzo poco distante, ma giunti al pozzo trovarono che dalla carrucola pendeva solo l'accune senza il secchione, forse rubato da qualcuno quella stessa notte. Pensarono allora di calare Andreuccio nell'acqua, lo legarono saldamente in vita e lo fecero scendere piano piano finché, toccato il fondo, il giovane cominciò a lavarsi. Mentre i due aspettavano, seduti sul parapeto del pozzo, spuntò da una strada un drappello di guardie. I ladri credettero bene di squagliarsi rapidamente. Le guardie, che venivano al pozzo per bere, deposero per terra le armi e cominciarono a tirare l'accune, in capo alla quale si aspettavano di vedere spuntare il secchio pieno d'acqua fresca. Arrivò invece tutto grondante Andreuccio, che riuscì ad afferrarsi al parapeto appena in tempo per non ricadere in fondo al pozzo. Le guardie, infatti, terrorizzate da quell'apparizione, avevano mollato l'accune e se l'erano data a gambe. Andreuccio, scavalcato il parapeto, trovò per terra le armi abbandonate dalle guardie e non seppe cosa pensare. Smarrito e confuso, prese la prima strada che si trovò davanti e andò vagando a caso, finché si incontrò con i due di prima che venivano a cavallo dal pozzo. Parlando con loro, tutto gli fu chiaro, tranne l'impresa alla quale si era offerto di partecipare. Ne chiese conto e gli venne spiegato che, essendo stato seppelito il giorno avanti il duomo, l'artivesco e gran nitaro del regno, Monsignore Filippo Minutulo, i due compari avevano pensato di entrare notte e tempo nel duomo, aprire il sarcofago, spogliare la spalma di ricchi ornamenti che vestiva, in particolare un prezioso danello con un rubino del valore di 500 fiori di doro. Il giovane era così disperato che ormai gli andava bene tutto, andò quindi di buona voglia alla spogliazione dell'archivescolo. Arrivati al duomo, i trevi entrarono senza fatica rompendo un finestrone. Il sepolcro era di marmo e molto grande, ma quei loro ferri riuscirono a sollevarne il coperchio quanto bastava per passare un uomo. Puntellato il coperchio, il primo ladro disse «Chi entrerà dentro?» «Io no», disse il primo. «Io neppure, ma ci entrerà il nostro amico.» «Perché dovrei entrarvi proprio io?» chiese preoccupato Andreuccio. «Come? Non si può entrare?» esclamarono insieme i due compari. «Se andiamo a forse portando con noi solo una compagnia, o perdendo una parte del coltivo, se non entri dentro il coltivatore, ti ammazzeremo con i tiparetti.» Vedendo che non diera scampo, Andreucci entrò. Appena dentro, tolse il danello al morso e se lo mise al dito. Poi mandò fuori la mitra, la croce d'oro e il pastorale. «Non c'è più niente», disse. «Cerca, ci deve essere l'anello!» insistevano gli altri. «Non lo trovo!» gridava Andreuccio. Convinti che l'anello non ci fosse davvero, i due birboni tolsero il punzello che sosteneva il coperchio, il quale ricade sull'arca, rinchiudendo Andreuccio insieme al morto. Il disgraziato tentò, con tutte le sue forze, di sollevare la pesante copertura di marmo, ma finì con l'abbattersi, disanimato, sul corpo dell'arcivescopo, mentre i due se la sviniavano di gran corsa. Quando Andreuccio ritornò in sé e si vide al buio, medio soffocato dal letto del cadavere, capì che sarebbe morto in quella tomba. Tentò ancora, piangendo e disperandosi, di sollevare il coperchio, ma ormai senza speranza. Solo al mattino, se fosse stato ancora vivo, quando si sarebbe aperto il tempio, avrebbe potuto far sentire le sue grida. Ma se anche l'avesse tirato fuori, sarebbe stato solo per impiccarlo come ladro. Stando in questi orribili pensieri, sentì dei rumori. Era gente che andava per la chiesa e stava avvicinandosi al sepolcro. Dalle loro parole e dal rumore dei ferri che maneggiavano, capì che venivano a fare quello che lui e gli altri due avevano già fatto. I nuovi ladri, infatti, sollevarono il coperchio e lo puntellarono. Ma quando si trattò di decidere chi dovesse entrare, nessuno ne voleva sapere. Dopo una lunga disputa, si fece avanti uno che disse Di che avete paura? Di venire mangiati dall'arcivesco? I morti sono morti. Vi entrerò io. Così detto, salito sull'arca, si calò dentro appoggiando il petto sul bordo e mandando avanti le gambe. Andreucciolo prese per i piedi e cominciò a tirarlo. L'altro, dato un urlo acutissimo, sgusciò fuori e si diede alla fuga, seguito dai compagni che parevano incalzati da centomila diavoli. Il giovane poteva allora uscire dalla tomba, calarsi dal finestrone per il quale era entrato nel duomo e raggiungere la strada. Le prime luci del giorno diradavano le tenebre e si cominciava a vedere gente che usciva dalle case. Indito aveva l'anello dell'arcivescovo che si tolse e miede in tasca prima di arrivare al suo albergo, dove, fatte le valigie, pagò il conto coi pochi soldi che aveva nelle tasche e, lasciata Nacoli in tutta fretta, si diresse verso Perugia. Ogni tanto, cavalcando, si toglieva di tasca l'anello e lo guardava alla luce del sole. In fondo si diceva Ho quel che avevo prima di partire, ma quanta puzza! Dal rischio che aveva accorso di essere ammazzato dal brigante scarafone, di morire nella tomba dell'arcivescovo o di venire impiccato, era troppo giovane per tenerne conto. Andava allegramente sul suo cavallo per la campagna, sfornando ogni tanto l'animale. Tanto aveva fretta di arrivare a Perugia per raccontare agli amici la sua storia. 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