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2 Aprile 2024. La Compassione. Lettura da Sharon Salzberg: L'Arte Rivoluzionaria della Gioia

2 Aprile 2024. La Compassione. Lettura da Sharon Salzberg: L'Arte Rivoluzionaria della Gioia

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Transcription

Summary: The transcription is about the concept of compassion and its importance in developing a compassionate heart. The speaker shares a personal experience in Calcutta, India, where they had to rely on a rickshaw driver for transportation. They also discuss how compassion is often misunderstood as weakness, but it is actually a powerful force that arises from recognizing the suffering in the world. The speaker emphasizes the need to acknowledge and accept pain and suffering in order to develop true compassion. They also criticize society's tendency to deny and hide suffering. The transcription concludes by highlighting the importance of facing the truth and recognizing the suffering in the world to cultivate compassion. Allora, visto che stiamo affrontando l'argomento della compassione, abbiamo pensato di leggere qualcosa dal libro di Sharon Salzberg, L'arte rivoluzionaria della gioia. Il libro si intitola così ed è proprio il titolo del capitolo, si chiama Sviluppare il cuore compassionevole. Allora, molti anni fa, quando vivevo in India e praticavo meditazione a Bodh Gaya, andai con un avventico a trascorrere alcuni giorni a Calcutta. Quando fuori ad andarcene, ci accorgemmo che si faceva tardi per prendere il treno di ritorno. L'unico modo in cui avremmo potuto raggiungere in tempo la stazione era prendere un risho. In molti altri posti in India i risho sono trenati da persone su biciclette o motorini, ma a Calcutta invece sono tirati da persone a piedi. Così, anche se odiavamo il pensiero di essere caricati da un altro essere umano in quel modo, abbiamo preso il risho verso la stazione. L'uomo del risho ci portò attraverso scorciatoie, strade buie e vicoli. A un certo punto, improvvisamente un uomo gigantesco, sbucato dal nulla, si avvicinò al guidatore del risho e lo fermò. Poi mi guardò, mi afferrò e cercò di tirarmi giù. Mi guardai intorno nelle strade per cercare aiuto, c'erano molte persone da ogni parte, come ce ne sono spesso in India, ma non vedi un solo volto amichevole. Pensai, Dio mio, quest'individuo ha intenzione di trascinarmi fuori e rapirmi. Poi mi ucciderà e nessuno mi aiuterà. L'amico che era seduto con me nel risho fu in grado di stingere di all'ubriaco e gridò al guidatore di tirare dritto. Così ce la cavammo e arrivammo alla stazione. Ero molto scossa e turbata quando arrivai a Bodh Gaya. Raccontai a Munindra, uno dei miei maestri di meditazione, cos'era successo. Lui mi guardò e disse «Oh Sharon, avresti dovuto prendere il tuo ombrello con tutta la gentilezza amorevole del tuo cuore e darlo in testa a quell'uomo». Stavolta pensiamo che sviluppare un cuore aperto, essere davvero amorevoli e compassionevoli significa essere passivi, lasciare che gli altri abusino di noi, sorridere e lasciare che tutti ci facciano quel che vogliono. Eppure non è ciò che si intende per compassione, piuttosto il contrario. La compassione non è affatto debole, è la forza che nasce dalla visione della reale natura della sofferenza nel mondo e che ci permette di testimoniarla chi è che si trovi in noi e negli altri, senza paura. Ci consente di dare un nome all'ingiustizia senza esitazione e agire con forza, con tutta la desprezza a nostra disposizione. Sviluppare questo stato mentale di compassione significa imparare a vivere con empatia verso tutti gli esseri viventi senza eccezione. Allora fino a qui è molto interessante perché effettivamente sviluppa proprio il pensiero che essere compassionevoli non significa essere deboli, essere che tutti ci facciano cose e che si sorrida e basta, ma anzi, il contrario. Qui dice che la compassione invece è veramente forte, non è affatto debole, è proprio una forza che nasce dalla visione reale della natura della sofferenza. È incredibile questo. È l'inizio di questo capitolo. Il capitolo, scusatemi. Allora, il sentimento che chiamiamo compassione è comunque stesso frenteso. La prima volta che insegnai meditazione in Unione Sovietica parlai molto della compassione. Quando le parole furono tradotte in russo io continuai ad avere la strana sensazione che non stavo trasmettendo chiaramente ciò che intendevo dire. Alla fine ho chiesto all'interprete, quando dico compassione, cosa traduci? E gli rispose, oh descrivo uno stato in cui essere desiderabilmente soprastatti dal dolore di qualcuno, come avere un palo che si attraversa il cuore e il peso del dolore di qualcuno che opprime anche te. Mi sono seduta lì e ho pensato, oh no, è facile capire come si possa portare il segnificato della compassione a includere lo stato di sopraffazione da parte della sofferenza di qualcun altro. Quando viene tradotto letteralmente dalla parola pali, karuna, compassione, significa provare un frenito, un brivido del cuore, in risposta al dolore di un essere. Ma la compassione non indebolisce, come suggerito dallo stato descritto dall'interprete. Essere schiacciati dal dolore può portarci alla disperazione, all'angoscia, a un senso di futilità, alla collera. Questa non è compassione. Una cosa è avere un cuore convolto, un'altra è averlo oppresso o spezzato. Se abbiamo la sensazione che i nostri cuori si spezzeranno, che saranno spre e oppressi e che non potranno sopportare quel che cadrà, troveremo difficile aprirci al dolore. Eppure aprirci al dolore è la base della compassione. Il primo passo nello sviluppo della vera compassione consiste nell'essere capaci di aprirci, di ammettere e di riconoscere che il dolore e la pena esistono. Ovunque, assolutamente ovunque, in un modo o nell'altro, gli esseri soffrono. Qualche volta può essere una sofferenza intensa e terribile, qualche volta può essere piccola e silenziosa. Quindi il primo passo per la vera compassione consiste proprio nell'ammettere e riconoscere il dolore. Poi continua. Contunque la sofferenza non sia tutto ciò che esiste nella vita, essa è uno dei fili che ha bisogno di essere riconosciuto chiaramente se vogliamo sviluppare sincera compassione. Se guardiamo alla nostra personale esperienza, non ci giunge inaspettato che la sofferenza esista. Abbiamo i nostri alti e bassi, troviamo dolore o pena quando non otteniamo ciò che vogliamo, oppure quando sì l'otteniamo ma lo perdiamo subito, oppure non si dimostra essere ciò che dopo tutto voi volevamo. Tutti abbiamo sperimentato questo modello, giacché conosciamo questa esperienza come reale. Un sincero riconoscimento del dolore che tutti sperimentiamo e in ultima analisi, causa di minor sofferenza dell'austinata e cieca negazione del dolore dentro e fuori di noi. Tuttavia, siamo fermi all'idea che la sofferenza sia qualcosa di sbagliato o da evitare. Pensiamo che sia insopportabile e che non dovrebbe mai essere affrontata. Così creiamo una società che spavorisce il nostro bisogno di negare il dolore. Per evitare la sofferenza ci serviamo del consumo materiale e dei calmanti. Prendiamo le persone che hanno problemi, vecchi, moribondi, eccetera, e li nascondiamo alla nostra vista, chiudendoli negli istituti. Queste sono forme di sofferenza delle quali dovremmo tutti passare. Ma c'è così tanta omiliazione amerita nella malattia e nel diventare vecchio o morire che sentiamo il dovere di nascondere il nostro dolore. Un esempio incesivo di questa negazione della garante si verificò quando Ronald Reagan concorreva alla prima volta alla carica di Presidente. In media erano pieni di immagini della famiglia americana che a questo tempo era quasi un'entità sacra. Secondo il mito sociale diffuso c'erano molte controverse sulle quali i tribunali non avrebbero più potuto decidere che i legislatori non avrebbero dovuto considerare perché se ne sarebbe occupata la famiglia americana. Erano immagini della famiglia priva di sofferenze e conflitti. Tutti i membri si vogliono bene e si prendono cura l'uno dell'altro. C'è un grande rispetto familiare e intimità che non c'è bisogno di alcun intervento da parte del governo. Quando leggo queste descrizioni sui giornali o le sento alla radio o in televisione penso di quali famiglie stanno parlando. Non stavano parlando di nessuna famiglia che avessi mai incontrato o di cui avessi mai sentito parlare. Certo, non di quelle famiglie con storie di violenza e alcolismo e neppure in quelle in cui le persone non si parlano da anni. Non intendo insinuare che non ci sia felicità nella vita familiare. Può esserci una grande felicità, ma quanto stessa è così perfetta come suggeriva quella visione politica? Nessuna meraviglia se le persone si sentono malissimo pensando alla propria situazione. Guardate cos'è mostrato a tutti come reale. Così viviamo come bambini che crescono in una famiglia che funziona male, dove c'è un conflitto, ma nessuno ne parla. Come se ai bambini potesse essere risparmiata la cruda verità. Essi invece sanno sempre cosa accade, sebbene non sia mai dato credito al loro giudizio e sentimenti che lo accompagnano. È così che le persone imparano a non fidarsi della propria esperienza, attraverso la negazione si crea una terribile disparità tra la realtà interiore e le circostanze del mondo esterno. Qui dice che tutti noi abbiamo provato la sofferenza con i nostri alti e i nostri bassi e che comunque la nostra società cerca di negare che ci sia sofferenza, ma ci mostra un'immagine di famiglie felici e che addirittura nascondono le persone che soffrono in istituti lontani dalla nostra vista. Poi continua. Un grande poeta epico indiano illustra questo impulso a negare. Fu chiesto al maestro qual è la cosa più mirabile del mondo intero e gli rispose la cosa più meravigliosa del mondo intero che tutto intorno le persone possono morire e non crediamo che ciò possa accadere a noi. E' come se vivessimo la nostra vita aspettando la fine con una bella sorpresa. Molte volte, stando in fila alla carta del supermercato, ho visto i titoli dei rotocalsi che raccontavano che Elvis Presley era ancora vivo ed era stato avvistato da qualche parte. Elvis visse in Florida o in California o una volta persino su Marte. Perché non poteva essere morto? Le persone muoiono. Perché è così impossibile da accettare? Quando neghiamo l'esperienza ci allontaniamo sempre più da qualcosa di reale e ci avviciniamo a qualcosa di artefatto. Vivere in questa trama da mito ci farà sempre del male. Potrebbe essere difficile aprirci alla verità, ma non ci potrà mai fare del mare. Che straordinaria storia aver detto la pura verità apertamente. C'è sofferenza in questo mondo. Tutto è mediato. Non ci sono giochi né finzioni né renegamento. Riconoscere la verità della sofferenza ci permette di sentire la nostra unità con gli altri. Lo scopo della pratica spirituale è essere capaci di comprendere e guardare senza illusioni. Per pratica spirituale io intendo meditazione, guardare la realtà così com'è. La volontà di vedere la verità è il primo passo nello sviluppo della compassione. Più difficile che riconoscere il dolore è comunque l'aprirsi ad esso. Questo è il secondo passo nello sviluppo della compassione. Quindi lei pone come primo passo per aprirsi alla compassione la volontà di vedere la verità, quindi vedere la sofferenza. E il secondo passo è aprirsi ad esso. Aprirsi al dolore è stabilire un'appropriata relazione con esso. Per aprirci sinceramente dobbiamo farlo poco alla volta. Se la nostra apertura è portata o pianificata la nostra intenzione può frantumarsi. Talvolta quando cominciamo ad aprirci alla sofferenza la rimuoviamo, cosicché osservandola abbiamo anche la sensazione di essere capaci di controllarla, come se potessimo accenderla o spegnerla. Questa tendenza alla rimozione può essere il motivo per cui la gente legge così avvidamente della violenza sui giornali o le riviste o la guarda costantemente nei film o in tv. Guardiamo la tragedia con la speranza di poterla controllare girando la manopola. Possiamo sentirci arrabbiati per l'ingiustizia o estraggiati dal vedere o sentire un uso scorretto del potere sia nelle famiglie sia nelle comunità o nei sistemi politici. Possiamo aver paura noi stessi quando siamo testimoni della paura altrui. Possiamo provare pena o angoscia per le disgrazie sofferte dagli altri. Tutte queste sensazioni sono simili alla compassione, il frenito del cuore, ma essa in effetti è ben diversa dalla collera, dalla paura e dall'angoscia. Questi stati d'avversione possono esaurirci, forse distruggerci. Non si intende che sia sbagliato provarli, ma dobbiamo essere capaci di guardare alla nostra esperienza sinceramente. Una volta fece un discorso sulle differenze tra avversione e compassione. Una persona venne a parlarmi piuttosto turbata e raccontò di sua sorella che era grade 20 e cerebrolesa e viveva in una casa di cura ricevendo troppo spesso cure scadenti. Disse che solo i suoi interventi ripetuti e infuriati la tenevano viva in quell'istituto. Tutto il suo corpo tremava mentre parlava. Dopo qualche momento gli chiesi «qual è la tua realtà interiore?» e gli rispose «sto morendo dentro, la collera mi sta uccidendo». Certamente in questo mondo ci sono ingiustizie da portare all'attenzione di tutti o situazioni piene di odio da cambiare, iniquità a cui rimediare. C'è una cura che deve essere prepesa, senza pregiudizio o paura. Ma possiamo fare queste cose senza distruggere noi stessi attraverso la collera? Lo stato di compassione come freneto del cuore sorge con l'equanimità. Potete immaginare uno stato mentale nel quale non ci sia un amare e piacevole giudizio di noi stessi e degli altri? Questa mente non comprende il mondo in termini di buono o cattivo, giusto o sbagliato, ben e male, essa vede solo la sofferenza e la fine della sofferenza. Cosa accadrebbe se guardassimo noi stessi e tutte le diverse cose che vediamo e non ne giudicassimo nemmeno una? Ci accorgeremo che alcune cose portano dolore e altre portano felicità, ma non ci sarebbero condanna, colpa, peccato o paura. Quanto sarebbe meraviglioso vedere noi stessi, gli altri, il mondo in questo modo. Quando vediamo solo la sofferenza e la fine della sofferenza allora sentiamo la compassione. Allora possiamo agire in modi energici e forti, ma senza gli effetti corrosivi dell'avversione. Quindi qui mette in contraposizione appunto la forza della compassione e ci sono anche gli effetti corrosivi dell'avversione. La nostra mente che tende a questo dualismo di bene male cattivo colpa eccetera, mentre se lo guardassimo con una mente pura, se riuscissimo a vedere oltre, vedremmo davvero la realtà. Quindi che cosa accadrebbe se guardassimo noi stessi, dice? Che cosa accadrebbe se guardassimo noi stessi tutte le cose senza giudicarne con una mente così? Poi continua. La compassione può condurre a un'azione molto energica, ma priva di rabbia o ossessione. Quando vediamo un bambino piccolo avvicinarsi a un fornello rovento e iniziamo a subire un'azione, la reazione nasce dalla compassione che proviamo. Ci muoviamo per allontanare il bambino dal dolore e dal pericolo. Non rifiutiamo o condanniamo il bambino. Provare compassione significa desiderare che un essere e tutti gli esseri siano liberi dal dolore. Significa percepire da dentro come deve essere l'esperienza di qualcun altro. Io ho avuto una simile apertura alla fine della mia prima visita in USA. In aeroporto al momento di partire dovetti passare per il controllo dei passaporti. L'ispezione veniva fatta con molta cura perché, immagino, non volevano che i cittadini sovietici lasciassero il paese con passaporti stranieri falsificati. Così il controllo dei documenti era una dura prova. Sorridendo, fursi il mio ammosticiale sovietico in uniforme, egli guardò la fotografia intorno a me. E lo sguardo che mi diede fu, io credo, l'occhiata più colma d'odio che abbia mai ricevuto da qualcuno in vita mia. Era un furore gelido. Fu la prima volta che sperimentai quel genere di energia, così redirettamente e personalmente. Rimase là, basita. Alla fine, dopo un bel po', l'ufficiale mi rese il passaporto e mi disse di andare. Mi diresti verso l'altro dell'aeroporto dove mi aspettavano i miei compagni di viaggio. Ero molto turbata. Mi sentivo come se l'energia di quell'uomo avesse avvelenato il mio essere. Avevo assimilato il suo odio e stavo reagendo con forza ad esso. Poi in un momento tutto cambiò. Pensai, se essere esposta alla sua energia ha potuto farmi sentire così male dopo dieci minuti, come farà a vivere di continuo all'interno di quella vibrazione energetica? Capì che quell'uomo doveva svegliarsi, passare la maggior parte della giornata e andare a dormire in uno stato simile a quello che io avevo appena sperimentato a causa sua. Mi nacque dentro uno straordinario sentimento di compassione per lui. Egli non era più un elico minaccioso, ma piuttosto qualcuno in cui sembrava ci fosse un'intensa sofferenza. Per vedere la vita in modo compassionevole dobbiamo osservare gli eventi e le condizioni che li hanno determinati. Invece di guardare solo l'ultimo momento e risultato finale, abbiamo bisogno di vedere tutte le parti che li costituiscono. L'insegnamento del Buddha può essere sintetizzato nella comprensione che tutte le cose nell'universo condizionato sorgono per una causa. Avete mai avuto l'esperienza di sentire disdegnati verso qualcuno e poi comprendere profondamente le cause del suo comportamento? All'improvviso riuscite a vedere le condizioni che hanno dato origine a quella situazione e non soltanto il risultato finale. Una volta conobbi due persone che avevano subito dei maltrattamenti durante l'infanzia. Una delle due, una donna, era diventata molto timorosa, mentre l'altra, un uomo, era diventata davvero collerica. La donna, che doveva lavorare a stretto contatto di vomito con quell'uomo, provava un'intensa antipatia nei suoi confronti e cercava di farlo licenziare. A un certo punto, però, ebbe un sentore di come era stato il suo passato e riconobbe come entrambi avessero sofferto nello stesso modo. «E' un fratello!», esclamò. «Questo tipo di comprensione non significa che rimuoviamo o condoniamo il comportamento negativo di una persona, ma che possiamo osservare tutti gli elementi che concorrono a formare la sua vita e che possiamo riconoscere la loro natura condizionata». Quindi, comprensione non significa rimuovere o condonare il comportamento negativo di una persona, ma significa osservare tutti gli elementi che concorrono e che possiamo riconoscere la loro natura condizionata. Osservare il sorgere interdipendente di queste forze impersonali che formano il nostro io può darci l'apertura necessaria per il perdono e la compassione. Compassione significa riservare un po' di tempo all'osservazione delle condizioni e le parti costitutive di ciascuna situazione. Dobbiamo essere capaci di osservare le cose così come sorgono learmente, in ciascun momento, e avere l'apertura e la spaziosità per vedere sia le condizioni sia il contesto. Per esempio, possiamo udire un'affermazione come «l'eroina è una droga molto pericolosa, che è indubbiamente vero, ma lo è necessariamente per un malato terminale soggetto a dolori atroci?» Qual è il contesto della realtà di quel momento? Riuscendo a guardare in quel modo non ci atteniamo più alle rigide categorie che rischiano di chiudere completamente la nostra comprensione compassionevole. Nella nostra vita, come facciamo a mettere in pratica la compassione? Vivendo con consapevolezza Vivendo con consapevolezza, ogni aspetto dell'esistenza può essere un'opportunità per la compassione. Perfino un'azione molto semplice può rivelarsi un'espressione straordinaria del cuore compassionevole. Stavolta pensiamo che per essere compassionevoli dobbiamo essere madre Teresa. Invece possiamo osservare le cose semplicissime che facciamo nella vita per capire cosa riflettono nel nostro rapporto col dolore, se riflettono una comprensione della sofferenza, se stiamo osservando le varie condizioni che concorrono a formare una data situazione e se stiamo guardando la situazione nel suo contesto. Perfino l'azione più semplice può fare una bella differenza. Possiamo non essere capaci di rimuovere la massa della sofferenza altrue, ma possiamo essere presenti. Se attraverso il nostro piccolo atto di presenza qualcuno non si sentirà così solo nel proprio dolore come era in precedenza, questo è già un dolore immenso. Verso la fine degli anni settanta invì un brutto incidente automobilistico. Arrivai nell'Insight Meditation Society con delle stempelle per tenere un lungo ritiro e avevo difficoltà a muovermi. Fu l'anno in cui il Dalai Lama venne in visita. I preparativi per il suo arrivo furono intensi perché dovevano predisporre un robusto servizio di sicurezza per quest'uomo che era considerato alla stregua di un capo di Stato. Il nostro centro di ritiro con la sua atmosfera pacifica e rurale divenne una roccaforte. La strada principale si sbarrata dalle trentenne e gli agenti di comicchietta appogliavano il tetto con i fucili. C'erano telecamere e un'intensa attività. Ero molto triste con le mie grucce, il lupore ancora di più quando finì dietro l'enorme folla che attendeva di dare il benvenuto al Dalai Lama. La sua macchina finalmente ci fermò e fu salutata dalle telecamere e dalle agenze debole più fermate. Il Dalai Lama uscì, si guardò intorno e mi vide in la calca, appoggiata sulle grucce. Attraversò la folla e giunse fino a me, come se si stesse dirigendo verso la più profonda sofferenza della situazione. Mi prese le mani, mi guardò negli occhi e chiese «che cosa succede?». Fu un momento bellissimo. Mi ero sentita così esclusa e in quel momento all'improvviso sentì così tanto interesse verso di me. Il Dalai Lama non fece sì che il dolore se ne andasse, di fatto non avrebbe potuto, ma il suo semplice riconoscimento e la sua apertura mi aiutarono a non sentirmi più un'esclusa. Ogni situazione può essere significativa dei nostri valori morali più profondi. Qualunque vita ci si presenti, la nostra risposta può essere espressione della nostra compassione. Qualunque persona ci parli sinceramente o con falsità, bruscamente o gentilmente, possiamo rispondere con una mente colma d'amore. Anche questo è un atto di servizio compassionevole. Un giorno un monaco del tempo del Buddha si prese una terribile malattia che portava alcune spiacevoli manifestazioni. Secondo il testo, Ilyadea beva piaghe trasudanti con un aspetto a un odore così terribile che tutti lo evitavano. Il monaco gioceva a letto abbandonato e sarebbe morto in modo spaventoso, senza nessuno che si fosse preoccupato per lui. Quando il Buddha seppre di questa situazione andò egli stesso nella capanna del monaco, lavò le sue ferite, si preoccupò di lui, lo rassicurò e gli dède istruzioni spirituali. Più tardi, parlando alla comunità monastica, disse che se qualcuno voleva servire lui, il Buddha avrebbe dovuto occuparsi del malato. Queste parole, somigliate a quelle pronunciate circa 500 anni dopo da nostro maestro spirituale, qualunque cosa farete al più piccolo di questi, la farete a me. Secondo il Buddha, per sviluppare la compassione è importante considerare la condizione umana ad ogni livello, personale, sociale e politico. Una volta egli raccontò di un re che aveva deciso di abdicare in favore del figlio. Gli insegnò ad essere un re giusto e generoso, ma col passare del tempo il nuovo re, sebbene si preoccupasse di essere giusto, si mintecò di essere generoso. Allora il re tentò... ho perso il segno, un attimo suona... è giusto e generoso. Ma col passare del tempo il nuovo re, sebbene si preoccupasse di essere giusto, dimenticò di essere generoso. Il popolo divenne sempre più povero e i ladri imperversavano. Allora il re tentò di far cestare le ruberie stabilendo penne molto severe. Nel commentare questa storia il Buddha fece notare che l'inestrimento delle penne fu inutile e che per eliminare il crimine si sarebbero dovute migliorare le condizioni economiche del popolo. Parlò di quanti cereali e aiuti avrebbero dovuto essere forniti ai contadini, e di quanti capitali e commercianti, di quale salario avrebbe dovuto essere pagato agli impiegati. Più che rispondere ai problemi sociali con le tasse o la durezza delle leggi il consiglio del Buddha era di comprendere le condizioni che hanno concorso a creare un contesto in cui le persone si comportano in un certo modo e quindi cambiare quelle condizioni. Il texto afferma che alla radice del purto e della violenza c'è la povertà e che re, poi governanti, devono esaminare le cause per comprenderne gli effetti. È molto più facile essere onesti se la nostra vita in qualche modo è sicura ed è molto più difficile astenersi da rubare se i propri figli o genitori soffrono la fame. Così il nostro impegno dovrebbe rivolgersi alla creazione di condizioni che permettano alle persone di essere oneste più facilmente. La dottrina del Buddha incoraggiò a vedere la propria vita come un mezzo per portare felicità e pace a tutti gli esseri. Ci sono molte possibilità. Un atto compassionevole non deve essere grandioso. Le semplici azioni dell'amore, dell'apertura verso gli altri, dell'offerta di cibo, del saluto, del chiedere ciò che è successo, dell'essere realmente presenti sono tutte espressioni molto potenti di compassione. La compassione ci impone di rispondere al dolore mentre la saggetta guida la risposta dicendoci quando e come rispondere. Attraverso la compassione la nostra vita diventa espressione di tutto ciò che comprendiamo, curiamo e apprezziamo. Il cuore compassionevole nasce vedendo la verità della sofferenza e aprendoci ad essa. È a sua volta far sorgere un proposito, un'intenzione così forte che il nostro scopo, il nostro più grande desiderio in ogni momento, a prescindere dalle circostanze della situazione, è esprimere un amore sincero. La nostra inerente capacità di amore non potrà mai essere distrutta, come la terra intera non può essere distrutta da qualcuno che ripetutamente le esigette contro. Così anche un cuore compassionevole non verrà distrutto da un assalto curioso di avversità. Ecco, il capitolo finisce così, quindi ha toccato davvero una serie di punti fondamentali la Salzberg appunto per la compassione. Pone veramente l'accento su questi due aspetti. Il primo passo è accettare la sofferenza e poi questa sofferenza che ci fa sentire uniti a tutti gli altri esseri viventi, perché la condividiamo tutti, quindi crea unità tra le persone. Il secondo passo è aprirci ad essa e tutte e due le cose sono davvero difficili. Però ci ha dato molti spunti e molti esempi di come possono essere praticate.

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