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Un giorno Angelo Zonni fece una passeggiata impossibile perché ha fatta nelle campagne poste tra Geranzano e Uboldo duemila e più anni o sono. Una passeggiata impossibile. Abbiamo vagato tra mappe e documenti e abbiamo estrapolato da essi una lunga serie di congetture e deduzioni. Ora, certamente, possiamo appagare quella fantalia madre di ogni ricerca con una bella passeggiata. Una passeggiata impossibile perché è fatta nelle campagne poste tra Geranzano e Uboldo duemila e più anni o sono. Geranzano e Uboldo sono due paesini fra Legnano e Saronno. Ma grazie a tutto, però, non osiamo visitare quel lago scomparso e quei misteriosi centri abitati. Sono ancora troppo avvolti nel dubbio delle ipotesi per tentare di delinearli. È meglio accontentarti di una passeggiata fra i boschi e i prati. Forse è un po' meno agradante, ma comunque straordinaria. Sì, perché l'uomo nel tempo ha modificato tutto e proprio in questo sarebbe la nostra meraviglia. Nel verificare come, pur parati nelle stesse campagne, ben difficilmente potremmo riconoscere qualcosa. L'unico riferimento rispetto a quel che ci è noto oggi sarebbe la cornice del paesaggio con le sue catene prealpine e, nei giorni ventosi, il maestoso profilo del Monte Rosa. Lo riguardo non sarebbe interrotto dalla mole degli edifici, ma piuttosto da vasti boschi e macchie di aberi sparsi. Tra le piante isolate, però, non vedremo quei gelfi che pure associamo all'immagine del trascorso paesaggio. Dovranno attendere la genialità di Ludovico il Moro per diffondersi in questi luoghi. Ci incuriosirebbero, molti invece, alcuni brevi filari di olmi e pioppi, con i rami completamente avvinti dei tralci della vite selvatica, la vintis labrusca. Alcuni tralci, ricchi di piccole bacche, si proteggono fino a legarsi a quelli della pianta accanto. Quel metodo di coltivazione, molto tipico, sarà poi chiamato dai romani arbustum gallicum, cioè pianta all'uso gallico. Attorno alle macchie verdi potremmo individuare i segni di una modesta agricoltura insinuata un po' a caso nei siti più accessibili. Così come la si può trovare oggi presso certi villaggi della savana africana. Vedremo piccoli orti di legumi e piccoli appezzamenti di orzo, ma inutilmente cercheremo le pannocchie del grano turco. Ne potremmo ritrovare le tipiche coltivazioni uboldesi, cioè di uboldo, di patate. Il grano turco, le patate, i pomodori e altre preziosi ortaggi dovranno attendere secoli prima di giungere dall'America. In certe radure più ampie osserveremo pascolare capre e pecole e entrando nel sottobosco, che noteremo pulito e libero da regna secca, potremmo imbatterci facilmente in gruppi di porci, piccole madri, intenti a rovestare in cerca di gambe. A ben guardare anche gli alberi del bosco ci apparirebbero diversi. Noteremo così l'assenza totale della robinia e del prunus serotina, padroni contrattati nella vegetazione attuale. Abituati alla monotonia del bosco i cedui, ci stupirebbe la grande varietà degli alberi e del diametro dei loro tronchi. Enormi castagni, ciliegi selvatici, prunus avium, nespoli, nespolius germanica e cornuli, cornus mass, assai più frequenti di come le incontriamo oggi e testimoniano la loro diffusione a scopo alimentare attuata dagli abitanti della zona. Ci coprirebbe poi l'imbatterci in alcune farghe, cerri, roveri della mole gigantesca e della detusta età. Attorno a queste grandi querce, adorate per la loro sacralità e dunque inviorate dalle scuri, noteremo un pululare di vita animale, i migli di uccelli sulle fronde, i fuori dei picchi su rami secchi, i rifugi dei ghiri e degli scogliattoli nelle cavità, le tane delle volti tra le radici. Magrado questo ricco e più sistema, potremmo però trovare altre zone del bosco completamente secche e accorgerci poi che tutti gli alberi sono stati scortecciati con cura al piede del tronco. Gli uomini che con questa tecnica hanno ucciso il bosco, torneranno l'anno dopo a dargli fuoco per creare così, come fanno ancora gli indies dell'Amazonia, una nuova radura fertilizzata di cenere e pronta da coltivare. Altre parti dei boschi, anche se più rade e aperte, sarebbero poco sensibili a causa del terreno pantanoso per l'acqua che trasciude dal suolo. Noteremo che questo terreno interessa le genti che abitano nella zona, visto che certe aree sono state liberate dai rovi e scavate con attenzione. La terra, infatti, è costituita da pura argilla. Alcune delle fosse si sono lagate e sono state abbandonate, trasformandosi in acquitrini e piccoli stagni. Il nostro girovagare in questo luogo ci porterebbe infine ad imbattersi in un aspettato torrente, un torrente che non potremmo proprio riconoscere perché oggi non esiste più. E' il Bozzente che a quell'epoca, prima di essere deviato dal canale artificiale, dove ora lo vediamo, scorreva proprio qui, tra Geranzano e Uoldo. Lungo il suo alveo potremmo forse percorrere una strada e forse troveremo delle abitazioni, ma è certo comunque che individueremo una serie di lapidi e pietre infisse al suolo. Sono dei segni visibili del rispetto di quegli antichi uomini verso i novantanati. Le loro ceneri raccolte in urne sono qui sepolte. Ho voluto chiudere questo fantasioso volo nel tempo arrivando deliberatamente al tema delle urne funerarie, quelle trovate in queste campagne. Esse sono l'anello di incontro tra quel lontano passato e la nostra realtà. Un incontro traumatico che, col fragore di ruspe e draghe, ha giurato la pace di quelle ceneri, ma che tuttavia ci ha permesso, magari un po' fortunosamente, di salvare qualcosa e di affidarlo a studi concreti. Sottotitoli e revisione a cura di QTSS

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