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Transcription

The transcription is a story about the life of the speaker and their family in Legnano from 1940 to 1970. The speaker talks about their birth during a time of political unrest, their family's anarchist beliefs, and the hardships they faced growing up. They describe the unity and solidarity within their community, as well as the difficult living conditions and lack of resources. They also mention the various games and activities they would engage in to pass the time. Overall, the transcription provides insights into the speaker's personal experiences and the social context of the time. Storie di leganesi e la vita del cortile dal 1940 al 1970. Milano e il suo territorio Racconti di vita a Legnano Sono nato a Legnano il 19 luglio del 1923. Si può dire che la mia nascita abbia dato un'impronta fondamentale a tutta la mia vita. Io sono nato, infatti, prematuro perché i fascisti erano venuti a prendere mio zio, che era un operaio delle acciaieri letosi. E mia madre, che era incinta, è caduta dalle scale per lo shock. Pesavo un chilo e sette etti quando sono nato e allora non c'erano le incubatrici. Negli stessi giorni hanno licenziato mio padre, che era l'unico che lavorava in famiglia, perché non aveva voluto iscriversi al partito fascista e ha partecipato allo shock dei ferrovieri del 1923. Eravamo quattro fratelli e due genitori. Mio fratello maggiore, che aveva dodici anni, ha dovuto diventare il capofamiglia perché a mio padre, che da quindici anni lavorava alle ferrovie, hanno dato soltanto, dall'ora in poi, una pensione simbolica. La mia era una famiglia già segnata per i fascisti perché mio fratello maggiore si chiamava Comunardo, l'altro fratello Libertario, mia sorella Damira e io Arno. È facile capire i legami con la rivoluzione francese e la comune di Parigi del 1870. Il nome di mia sorella era quello di una nichilista russa e il mio era quello del piccione che ha portato il proclama di Leone Gambetta dopo la costituzione della comune di Parigi. E il fatto di appartenere a una famiglia anarchica, non nel senso nichilista ma in senso umanitario, ha condizionato i primi anni della mia vita e gli anni a scuola. Tanto che nel 1927 e il 1928 alcuni amici avevano fatto pressione perché cambiassimo i nostri nomi ricevendo il battesimo. Mio padre non ci aveva infatti battezzati perché voleva che fossimo noi a scegliere la nostra religione una volta arrivati alla realtà della ragione. Che mio padre fosse un anarchico umanitario possono dimostrarlo tanti episodi della sua vita. Ricordo che una volta un uomo che prendeva la sbogna tutti i giorni gli aveva rubato l'ombrello. Mio padre l'aveva fermato e lo aveva invitato a cena a casa nostra. Quello è venuto con l'ombrello rubato, ha mangiato e poi se ne è andato via di nuovo con l'ombrello. Pioveva di rotto e così quella sera mio padre non poteva neanche uscire. I primi anni della mia vita li ho trascorsi nel cortile delle case dell'autosi in via Fissatane dove sono nato. Nonostante che la mia famiglia forse perquisita e perseguitata in continuazione dai fascisti non è mai stata assegnata a dito o emarginata dagli altri abitanti del cortile. Nello stesso cortile abitavano i venegoni e gli altri antifascisti. C'era solo la famiglia dichiaratamente fascista e in modo feroce, per il resto si era tutti socialistoidi o aderenti al partito popolare. La classe operaia infatti era allora divisa in socialisti e popolari. C'è sempre stata solidarietà nei nostri confronti. Ci aiutavano a scuola dove il mio nome e quello dei miei fratelli facevano problema. Ci aiutavano a sopravvivere viste le condizioni durissime in cui viveva la mia famiglia. Questo dimostrava che l'anima del popolo era al di sopra delle ideologie. C'era un'unità di fondo nel vedere le cose, nel vivere gli avvenimenti, nell'aiutarsi reciprocamente. Fino al secondo dopoguerra molte famiglie avevano un pezzo di terreno e coltivavano un po' d'uva per fare il bruschetto, le patate per mangiare e un po' di frumento. Piantavano un po' di tutto per vivere perché non ci sono mai state grandi estensioni. Allora le condizioni di vita erano difficili. La carne la mangiavamo una o due volte all'anno. Avevamo tutti una marmitta da un litro, un litro e mezzo, nella quale mia madre versava la minestra o la pasta. E non c'era nient'altro. Il mio primo vestito, tutto mio, l'ho avuto a diciassette anni. Il primo paletò a ventitré anni, nel 1946. Prima ho sempre indossato gli abiti smessi di mio fratello, il quale alla sua volta gli ereditava dall'altro fratello o da un mio zio o da qualcun altro. Ma non era solo la mia famiglia che viveva in questa maniera. Allora tutta la classe operaia e anche gli impiegati facevano fatica a vivere. Sono stati anni duri per tutti. Mia madre, quando comprava dei pantaloni o delle scarpe, li prendeva lunghi e larghi perché dovevano durare per degli anni. I miei pantaloni, che allora arrivavano fino a metà gamba, prendevano gli elastici con gli occhielli per attaccare le calze. Ma in genere si andava in giro a piedi nudi. Soltanto d'inverno si mettevano le calze. I miei compagni di classe, che venivano dalla Cascina Mazzafame, che allora era in aperta campagna, portavano sempre gli isocoloni di legno, sui quali infilavano d'inverno delle ridimentali tomaie. Da maggio a ottobre venivano a piedi nudi. La domenica mettevano i sandali perché costavano poco e li si poteva portare anche senza calze. Per lavarci, siccome non avevamo il bagno, si usavano i catini o i mastelli. Nei mesi più caldi ci si lavava nei lavatoi con l'acqua gelata oppure si andava a paradiago nel canale Villoresi. Noi partivamo in 30 o 40 ragazzi nel cortile, subito dopo mangiato, e andavamo a piedi fino al canale. Alcuni, ma pochi, venivano in bicicletta. Lungo la strada, che era di una decina di chilometri, ingannavamo il tempo giocando ai pelerossa. Quelli di noi che avevano i dei di sinistra facevano gli indiani, cioè i perseguitati. Gli altri, che stavano un po' meglio economicamente, facevano invece gli scerifi e avevano le biciclette. Così talvolta facevamo tutta la strada di corsa fino a paradiago. Oppure giocavamo con il centro della bicicletta o con la rella, che era fatto con un manico di scopa tagliato in due pezzi, uno lungo e uno corto. Facevamo anche dei giochi un po' pericolosi con le scatole di latta della marmellata. Mettevamo dentro l'acetilene e facevamo dei piccoli razzi. Ogni tanto qualcuno si faceva male. A mago libero giocavamo in 50 per volta, divisi in bande più piccole in base all'età. C'era la banda dei bambini, quella dei ragazzi, quella dei grandi, che dominavano il cortile. Le bande non si misuravano soltanto sul piano della violenza. Anzi, questo avveniva anche raramente. Quando all'inizio dell'inverno si faceva rifornimento di carbone e ogni famiglia doveva portare in cantina da 10 a 15 quintali di carbone, l'appalto di questo lavoro veniva dato ai più grandi, i quali, a loro volta, ne subappaltavano una parte per i più piccoli per una lira, che noi usavamo per acquistare delle spagnolette o dei carrubi, che adesso si danno i cavalli, ma che allora mangiavano molto volentieri. Era una forma di cooperazione. Ognuno aveva una parte di lavoro, cioè un bucchio di carbone da portare in cantina, e ad ognuno aspettava un compenso in denaro. Poi ci si lavava tutti assieme nel lavatorio. Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org

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