black friday sale

Big christmas sale

Premium Access 35% OFF

Get special offer
Home Page
cover of th508-rvg-padania07a
th508-rvg-padania07a

th508-rvg-padania07a

redigioredigio

0 followers

00:00-10:24

Nothing to say, yet

Podcastmusicspeechbass drumdrumsnare drum

Audio hosting, extended storage and much more

AI Mastering

Transcription

The transcript discusses the relationship between the Celts and nature, particularly their reverence for forests, animals, and the environment. It emphasizes how the Celts saw forests, mountains, and natural phenomena as sacred and connected to their spiritual beliefs. The Celts also worshiped trees, such as the oak and elm, and revered animals like the boar and deer. The transcript suggests that this deep connection to nature was an integral part of Celtic culture and identity. redigio.it e la storia continua I Celti e la natura, i Celti e la natura, riflessioni a margine su quell'immaginario animale vegetale presso i Galli. Per i Galli, come per tutti i popoli indoeuropei, il rapporto con la foresta, con gli animali e, più in generale, con la natura, aveva un'importanza straordinaria. Oggi, parlando di indipendenza dei popoli alpino padani e ponendo l'origine celtica della nostra gente come elemento fondante di un recupero culturale della nostra specificità, non possiamo fare a meno di rivedere il nostro rapporto con l'ambiente che abitiamo. La Padania fu amata dei Celti perché in essa trovarono tutto quello che l'immaginario indoeuropeo aveva loro trasmesso, le foreste impenetrabili, la ricchezza di fonti e di laghi, le alte montagne innevate, spesso viste come sedi degli dèi. E questo rapporto privilegiato con le forze della natura si vede anche nei luoghi di culto del mondo celtico che quasi ovunque sono rappresentati da boschi o da alture. Non a caso, infatti, i templi celtici erano siti in foreste o in cima incontaminata di monti sacri, laddove le forze spirituali primigenie avevano eletto il luogo della manifestazione privilegiata. E la montagna, ad esempio, e ancora oggi per chi vive profondamente la sua appartenenza territoriale, è un luogo di primario valore simbolico, così come l'era per i Celti, i quali dovevano avere una sorta di culto dai monti, come è attestato da alcune iscrizioni trovate nella Gallia Transpadana. L'improvvisa comparsa dei grandi massicci alpini non può non aver lasciato in questo popolo una profonda sensazione di potenza. Se i Leponsi e i Salassi hanno scelto di restare sulle montagne, da cui la definizione di «galli delle montagne», è perché in esse avevano trovato il significato superiore a qualsiasi altra questione contingente. Ma non solo le alte cime alpine furono venerate dai Celti. Ovunque infatti la terra energesse, anche solo creando una collina, lo spirito celtico sapeva che lì la potenza della terra doveva essere più grande. Il stesso discorso vale per il masso che si erge sulla terra, e tale culto resistette per secoli e secoli, se è vero, come ci viene riportato nella storia, che alcune decisioni capitolari, di Arlè 452 e di Nantes 658, dovessero insistentemente mettere in guardia contro il grave peccato di offrire sacrifici alle piante o alberi. E infatti per l'immaginario celtico ancora più significativo dovrebbe essere il culto degli alberi. Nella trasformazione stagionale dell'albero, l'uomo celtico vedeva rinnovarsi il mito dell'eterno ritorno, così come negli alberi, che invece erano sempre verdi, la possibilità magica e incomprensibile della natura di resistere al freddo e all'inverno. E tale dovrebbe essere il culto degli alberi, che diverse tribù celtiche prendevano il loro nome appunto da questi, e persino di Eburones, da Gallico Ibor, Tasso, e ai Lemovices, da Gallico Lem, Olmo. Anche il culto degli alberi dovrebbe resistere nei secoli, sì, come ci riportano anche in questo caso i documenti storici. Durante l'interrogatorio Giovanna d'Arco, prostrata dalle strutture, confessa di aver posato, bambina, delle ghirlande di fiori sul ramo dell'albero delle fate, e di aver anche ballato intorno a delle fonti e dei fiumi, spesso legati a divinità femminili, le matronae. E lo stesso Virido Maro, il re degli insubri, caduto difendendo il suo regno dagli invasori romani, affermava di provenire dal dio Reno. Ma, oltre alla venerazione per gli esenti naturali, i Celti tenevano in enorme considerazione le apparizioni e i significati simbolici di pelugni animali. Del cinghiale abbiamo già accennato relativamente alla fondazione di Milano, da parte di Belloveso, e possiamo solo ricordare che le insegne da guerra celtiche portavano spesso il cinghiale, così come nelle tombe di Alf Tatti in Gaviera, e furono ritrovati scheletri di cinghiali che devono aver avuto una funzione di dono funere. Il cinghiale, infine, lo si ritrova spessissimo nella monetazione celtica. E un altro animale importantissimo nel mondo celtico è il cervo, rappresentazione vivente del dio gallico Cernunnos. Il cervo viene ricordato nella tradizione celtico-metivale relativa al ciclo dei Gral e investe direttamente l'iniziazione cavaleresca di Realtù, il quale deve catturare il cervo bianco per superare il livello di quelli che nel linguaggio tradizionale vengono definiti i piccoli misteri. La geografia alpina è testimone di questo connubio tra la regalità sacra e il cervo. Santo Berto, infatti, si imbatte in un cervo bianco e mentre cerca di colpirlo, tra le corna e il cervo appare una croce luminosa, il segno di Dio. Il dio Cernunnos è rappresentato anche nel famosissimo calderone di Gunderstrup, vera e propria mappa iniziatica del pensiero religioso celtico, di cui il dio cornuto pare essere il punto centrale. Nei carnevali tradizionali che ancora si possono vedere, e che sicuramente coloro che sono nati nei primi decenni del secolo possono ancora ricordare, si pensi a quello di Schignano sopra Como, presso le maschere che rappresentano la testa del cervo, esattamente come nel mito della caccia selvaggia, che un po' dovunque sulla catena alpina è presente. Le corna del cervo erano dunque segno di forza ma anche di caos, forse di furor guerriero, il fatto che i celti spesso ornavano i loro ermi con delle corna dove deve riportare a questo tipo di simbolismo. Infine, ma anche in questo caso l'elenco potrebbe continuare, parliamo del pavaglio. Intanto una città importante del nostro Piemonte ha già nel suo nome originario un forte richiamo a quell'animale straordinario, Ivrea infatti era l'antica, e Poredia la città dei cavalli, per un probabile culto alla dea gallica Epona, la signora dei cavalli. In Padania sono numerosissimi monumenti iconografici in cui la dea appare dinanzi a uno o più cavalli, così come numerose sono le raffigurazioni del cavallo sulle monete galliche locali. L'importanza del cavallo è legata al fatto che furono proprio gli indo-europei ad addomesticare per primi questo animale e ad utilizzarlo anche per la guerra, dando così inizio a quella che sarebbe divenuta nel medio-evo europeo la cavalleria. Su una moneta di Brienos, nel territorio degli Arverni tra Spadani, il cavallo è incorniciato in un piccolo tempio e quindi chiaramente caratterizzato come oggetto di culto. È interessante notare che ci è giunto, tramite il calendario di Guizzi Zolo, il giorno della festa di Epona, la dea dei cavalli, che cade proprio il 24 dicembre. E' il quindicesimo calendas Iannuarius. Redigio.it e la storia continua

Listen Next

Other Creators