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This transcription discusses the historical and linguistic context of Carlo Magno (Charlemagne) and his relationship with his wife, Ermengarda. It explores the languages they spoke and the words they used, highlighting the influence of both Germanic and Latin elements. The transcription suggests that their words represented a mutual discovery of each other's languages and cultures. It also touches on the political considerations that may have influenced their marriage. Ultimately, the transcription concludes with the idea that history tells us that Carlo Magno left Ermengarda to pursue his political ambitions. E io ero Carlo Magno, re della prima Europa. Siamo entrati in questo primo mese dell'anno, siamo nel 2000, l'era irreversibile della nuova moneta comune, l'euro. Situazione storica, economica e sociale che sarebbe piaciuta moltissimo a questo grande re analfabeta, ma insieme colto e a mezza via tra la cultura francese e quella tedesca, gratificato dall'importanza del regno che gli apparteneva, ma tuttavia ansioso di allargare i propri confini e inglobare con essi nuovi sudditi. La capitale, per Carlo Magno, era quella nella quale lui e il suo seguito rizzavano le tende nel corso delle numerose campagne militari. Il perfetto conoscitore dell'arte del comando e anche sensibile al fascino dell'amore, celebre quello infelice con la sua bella Ermengarda, di Manzoniana Menoria, figlia dell'ultimo re Longobardo, Desiderio, una regina della quale continuiamo a immaginare l'affannoso petto. Chissà come si parlavano durante la breve stagione d'amore e litigi Carlo Magno e Ermengarda. Il linguaggio dell'imperatore Lui usava una lingua gallo-romanza, una specie di paleo-francese, grandemente influenzata da elementi germanici, la lingua franca appunto. Lei comunicava con un altro linguaggio di origine germanica che aveva però assorbito, dopo oltre duecento anni di contatto, un latino che cambiava pelle a seconda delle zone della penisola nelle quali veniva parlato e scritto. La gentile Ermengarda forse sapeva poco di guerra e di tattiche militari, non ignorava però che i vocaboli del suo Longobardo erano entrati nel linguaggio comune, strale, spalto, trappola, spranga. Forse aveva assistito al mutamento semantico di parole nel mondo guerresco quali spiedo e sguattero, in origine un'arma e una guardia, che col tempo avrebbero indicato l'arnese per cuocere le carni e il lavachiatti, uno strumento e un personaggio, questi senza dubbio più familiari. Ma il re venuto dalla Gallia, oltre che con uomini armati, era giunto con termini inequivocabili, gonfalone, usbergo, lardo, schiera. Per chi non aveva le sue idee c'era la baratta, che sarebbe la lite, quando sul campo le cose si mettevano male ricorreva alla tregua. Di sicuro a Carlomagno non facevano difetti due requisiti franchi, l'orgoglio e il senno dei quali faceva sfoglio, in equale misura a seconda delle circostanze. Non era un re rosso, Carlomagno, o perlomeno non ci è stato dipinto come tale. Nella sua visione di un nuovo regno unitario, che spaziava dall'Europa del nord a quella più meridionale, avrà senza dubbio considerato opportuno sposare Helmengarda, per evitare di venire in conflitto con la potenza, sia pure in declino, dei Longobardi, che avevano a loro volta favorito la nascita di un regno quasi unitario in Italia. Ecco quindi che le parole che i due si scambiavano rappresentavano con tutta probabilità una scoperta reciproca. Helmengarda poteva contare su un nutrito gruppo di vocaboli che la sua gente usava con regolarità. Pazienza se uno stamberga, casa di pietra, aveva finito per svilirsi nella stamberga che noi conosciamo. Alcuni vocaboli dovevano, al contrario, dare al marito e al monarca la sensazione del calore familiare. Nella casa c'erano la panca o banca, la scaffa, lo scaffale. Poi c'era lei, con la sua schiena sinuosa e perfetta, con le sue guance morbide. Helmengarda doveva essere bella. Fortunato Carlomanio, dunque, che non avrà conosciuto, almeno nella sua sposa, i caratteri vagamente sfregiativi che in Longobardia scrivevano a certe parti del corpo umano. Il ciuffo, la zazzera, la nappa, che era un naso un po' grosso, le zinne o zizze, segni decisamente fuori misura, così definite ancora oggi a Roma. Carlomanio avrà sicuramente cercato di mitigare gli aspetti più rosi del suo carattere per compiacere Helmengarda, magari indossando la cotta e i guanti. Non è dato sapere con quali risultati pratici, anche perché se la sposa perdeva le staffe poteva barruffare o graffiare. Ma l'ultimo definitivo verbo è la storia che ce lo dice, fusato da Carlomanio, abbandonando la sfortunata consorte per inseguire traguardi politici. Proverà Helmengarda. Non a caso il verbo francese significa la lettera «lasciare in bando alla mercè». Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org